L’ho divorato in poche ore, manco fosse un romanzo giallo dalla trama irresistibile, ma Marco Aime e sua nipote Chiara Aime hanno scritto un libro su Torino che, per quanto mi riguarda, è meglio di una Lonely Planet (che, tra l’altro, in Italia è pubblicata dalla Edt, che è torinese).
“Torino, senza esagerare“, Bottega Errante Edizioni, uscito a maggio del 2021, non lo si può definire nè una guida turistica e nemmeno un Bignami di storia sabauda. Forse nemmeno un ritratto dell’identità di una città e dei suoi abitanti, ma sta di fatto che solo Giuseppe Culicchia con il suo straordinario “Torino è casa mia” (Laterza, 2005), era riuscito a farmi sentire così orgogliosamente torinese.
Non tanto per una sterile attitudine campanilistica che, tra l’altro, non mi appartiene, ma per la capacità che i due Aime hanno avuto di fotografare e raccontare la Torino che ho visto mutare anno dopo anno sotto il mio naso. Sono nato nel 1966, figlio di due emigrati meridionali, che a Torino hanno messo su casa e famiglia. Mio padre lavorava in carrozzeria a Mirafiori, mia mamma era impiegata nell’indotto auto della Zust Ambrosetti, un piccolo colosso della logistica pre digitale.
Ho vissuto la One Company Town dall’interno ed ho assistito alla sua dissoluzione, passando anche attraverso il ’77 (con la P38), il rogo dell’ Angelo Azzurro e la Marcia dei Quarantamila. Torino era una grande fabbrica con attorno le case degli operai, poi, pagando un prezzo sociale altissimo, ha dovuto cambiare pelle è ancora la sta cambiando.
Chi ha vissuto la Torino degli Anni Sessanta e Settanta troverà la propria biografia, quelli nati dopo, invece, viaggeranno in quel tempo. Un tempo di cui si parla poco. Chi non conosce Torino, a fine lettura, si sentirà prima di tutto nipote di Camillo Benso Conte di Cavour e poi dovrà dare spazio all’istinto irrefrenabile di prendere un mezzo di trasporto, quale che sia, e puntare verso la patria dei bogia nen.
Però, mi raccomando, fatelo senza esagerare.